Pubblichiamo gli elaborati del premio riservato agli iscritti dell’OPI spezzino: ogni categoria (Sanità pubblica, privata, militare, libera professione, studenti) prevede un premio di 250,00 euro per il miglior elaborato.

Nessun elaborato è stato consegnato per le categorie ‘’militari’’ e ‘’libera professione’’; quindi queste cifre, già investite a bilancio, sono state riversate in altri premi a favore di altri elaborati ritenuti, dalla giuria, degni di menzione.

Alcuni dei vincitori, come indicato in fase di premiazione, hanno devoluto la cifra al Fondo nazionale di solidarietà a favore dei Colleghi ammalati e deceduti in servizio, a causa dell’infezione da Covid 19 #noicongliinfermieri, organizzato da FNOPI

Le premiazioni si sono svolte il 31 luglio, in sede OPI, durante assemblea ordinaria.

GRAZIE A TUTTI  (gli elaborati seguono in ordine casuale: sono cinque in totale)

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Bertoldi Gianni, Di Mattia Marco, Riccio Donatella – elaborato

Mi squilla il cellulare, è il numero dell’ospedale. Penso subito se sono reperibile, non lo sono, rispondo con più tranquillità, sarà un collega che è a lavoro e mi chiede qualche cambio.

“Pronto”

“Riccio? ”

“Sì”

“Sono … , ti chiamo perché abbiamo un paziente in osservazione, il prelievo degli organi è previsto per questa notte, volevo sapere se potevi venire”

Penso che questa sera i miei figli non hanno impegni sportivi, sono già organizzata per la cena, non vorrei andare, un prelievo d’organi è molto stressante, ma inventare scuse non è da me, vorrei dire di no, ma poi sono sincera.

“OK, riesco a venire, ma chi sono gli altri colleghi, così ci organizziamo per il materiale e tutto il resto”

Mi dice i nomi. Solo uno è “nuovo” a questa esperienza. Marco ha una lunga esperienza in sala operatoria, anche  nei prelievi d’organo. Gianni è molto esperto in ortopedia, non in questo.

Ci sentiamo con i colleghi in servizio, per sapere cosa hanno preparato e cosa dobbiamo prendere noi al momento ( ghiaccio, farmaci …). Non vorrei andare. Cerco di riposare perché mi aspettano molte ore di lavoro e non si può sbagliare a causa della stanchezza.

E’ un uomo dell’età di mio marito, ha avuto  un’ischemia cerebrale massiva , l’EEG dice che è in morte cerebrale. Non mi  fermo a pensare su qual è stata la sua vita, la sua famiglia, i suoi affetti. Mi dico empatia sì, simpatia no. Arriviamo, ci cambiano, passiamo i vari filtri e controlliamo le sale, tutti gli strumenti e gli elettromedicali. Ci  mettiamo d’accordo su chi deve fare cosa. Basta poco, perché siamo persone che si conoscono, si parte. Ci comunicano che il paziente  arriverà in ambulanza tra circa venti minuti al massimo.

Abbiamo il tempo per preparare. Mi lavo. Marco mi dice che se ad un certo punto sono stanca, lui mi dà il cambio. Lo apprezzo molto. Anche se la parte del circolante è dura ugualmente. Pronti a dare vita a chi da tempo ha paura di perderla. Preparo il “tavolone” per il ghiaccio e per controllare e confezionare  sterilmente gli organi con le ciotole d’acciaio, i sacchetti sterili;  il ghiaccio sarà “rotto” al momento perché, altrimenti, si scioglie Lo copro con un telo sterile.  Poi gli altri tavoli. Arriva il paziente.  Assomiglia … Mi dico “ empatia sì, simpatia no”. Viene posizionato sul letto chirurgico, Marco ripete “supino con gli arti superiori aperti”; dico di sì

Posiziona la placca neutra ad un arto inferiore. Gianni lo aiuta, mi sembra un po’ preso emotivamente. Gli faccio cenno di avvicinarsi. Lo fa senza toccarmi, per la sterilità. Gli dico “empatia sì, simpatia no”. Mi risponde “fosse facile”; ha ragione. Gli dico “allora pensa al perché lo facciamo”

Si procede. L’oss  aiuta nella vestizione i chirurghi che arrivano da Genova e Bergamo Si procede.L’anestesista segue tutte le fasi del prelievo. Mi concentro sull’intervento: klemmer, bengolea, forbici, laccio, passafili, bengolea, forbici, filo, bipolare …

Resto in silenzio. Quando finisce il “laccio” mostro la bobina  vuota a Marco, e senza parlare me ne dà una nuova. Gianni si lava. Comincia a rompere il ghiaccio sterile. Mi dico “è forte e almeno si concentra su qualcosa di pratico”. Marco non si distrae neppure un attimo.

La burocrazia è lunga e complessa, anche quella tocca a lui. Reni, fegato, polmoni, infine cuore. Le cornee saranno prelevate in obitorio. Ogni organo è confezionato in doppio sacchetto con il ghiaccio sterile.  Ogni organo è integro.

Sono come bambini nati da un corpo che vivrà in altre vite.  E’ finito il prelievo d’organi. Senza rendercene conto sono solo passate undici ore, ma non è finito tutto.

Togliamo al paziente il catetere vescicale, cateteri venosi. Poi lo ricomponiamo come se gli dovessimo dare gli onori di chi ha salvato altre vite con il suo sacrificio. Marco chiama per portare in obitorio la salma, la documentazione è completa nei minimi particolari. Marco è un infermiere molto attento. Gianni mi aiuta nel conteggiare e nel dividere i ferri. Riponiamo tutto al suo posto. Nessuno ha voglia di parlare e a  chi crede  è scappata anche una preghiera. Portano via la salma. Tutti e tre l’accompagniamo fino al passaggio pazienti in uscita.

Chiedo a Marco se abbiamo una copia della documentazione da lasciare alla Coordinatrice. Mi risponde “Donaaa”. Intanto è l’alba. Arriva il turno del mattino, ci chiedono com’è andata. Rispondiamo “bene”, ma nessuno ha voglia di parlare dei particolari, ci andiamo a cambiare. Mentre esco dal padiglione centrale, mi imbatto in un viso conosciuto, ma è pallido, mi guarda, sto per dire:” come va?”, “come stanno le ragazze?”.

Capisco che non è il caso. Mi basta un minuto per collegarlo al paziente del prelievo d’organi. Ecco perché è lì. Mi si avvicina, non ho parole, l’ abbraccio. Senza parole vado via.Mi ripeto che questa è la vita che ho scelto, empatia, no simpatia. Questo però mi insegna che devo apprezzare di più quello che ho e chi mi sta accanto. Vado a fare una passeggiata vicino al mare.Poi  mi riposerò.

Giorni dopo ci informano che gli  organi impiantati sono andati tutti a buon fine. Questo ci dà forza. Gianni mi abbraccia. Penso alla fortuna che ho di lavorare con persone come loro.

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Infermiera MARCELLETTI FRANCESCA         Ho deciso di partecipare a questo bando di concorso semplicemente perche’ la scorsa settimana un evento accaduto mi ha fatta riflettere molto,non l’ho condiviso,l’ho lasciato andare…perche’ in quel momento cio’ che mi bastava era aver risolto il problema e aver trovato senso e soddisfazione nel lavoro svolto.

Credo di aver ricevuto,l’opportunita’,di poter fare in quell’occasione la differenza, “curando e prendendomi cura”, esprimendo si competenze ma principalmente dedicandomi a cio’ che era venuto a mancare fino a quel momento ,l’ascolto.

Lavoro in una Breast Unit e mi occupo, nel ruolo di breast care nurse, delle donne che lottano contro il tumore al seno. Con il passare degli anni ho imparato e capito che il paziente oncologico,pur avendone pieno diritto,sceglie sempre “di non disturbare”,difficilmente domanda cio’ che vorrebbe sapere,devi essere tu attento a leggere i suoi occhi,a percepire le parole non dette e di conseguenza saper delicatamente entrare nei suoi pensieri intavolando un discorso dove lui si senta libero di lasciar andare…”di disturbare”…

Quel giorno,la paziente G.M arrivo’ presso il nostro servizio per eseguire la prima medicazione post intervento,era martedi’ e solitamente il martedi’ e il giovedi’ l’attivita’ e’ prettamente infermieristica,senza la presenza del chirurgo.

G.M ha 50 anni ,qualche mese fa le e’ stato diagnosticato un tumore della mammella,molto esteso con interessamento dei linfonodi in ascella,per cui dopo discussione multidisciplinare, a cui iopartecipo,e’ stato deciso per una terapia chemioterapica neoadiuvante,per aggredire  immediatamente

la malattia e solo in un secondo momento intervenire chirurgicamente.

La paziente e’ quindi in un momento di stanchezza estrema,ha appena superato il primo importante momento di difficolta’ di questo percorso,la chemioterapia,e pronta a non mollare ha affrontato anche l’intervento di mastectomia e svuotamento ascellare.

Entra in ambulatorio e con un sorriso mi saluta.

Prima di effettuare una medicazione come questa sai che e’ il caso di chiedere alla paziente come sta,come e’ stato arrivare fino ad oggi e capire attraverso il suo viso e le sue parole in quale stato

psicologico si trovi, quali siano le sue paure piu’ grandi,se vedere per la prima volta le ferite o attendere la risposta dell’esame istologico.

G.M risponde che va tutto bene,ma e’ chiaramente una bugia perche’ nell’istante in cui sorride e dice -va tutto bene-,i suoi occhi esprimono la voglia di urlare. Sorrido anche io e con tono pacato provo a dirle -non sembrerebbe-.

Quel ”non sembrerebbe” apre la porta ad una crisi di pianto della signora ,che disperata si siede sulla sedia domandandomi scusa… Scusa di cosa…. Anche io mi siedo e le chiedo se ha voglia di raccontarmi cosa non va.

Il racconto e’ lungo e articolato ma cio’ che mi lascia tremendamente perplessa e’ che G.M. mi riferisce che sono settimane che cerca di dire ai medici che la seguono che ha un forte mal di schiena…cosi’ forte da non lasciarla respirare,cosi’ forte da non permetterle di dormire,di affrontare la vita di tutti i giorni… La risposta del personale medico pero’ e’ sempre mlto evasiva,non conclusiva,nessuno di loro fino ad ora le ha dato importanza ,nessuno le ha consigliato cosa fare se non di assumere degli antidolorifici.

Chiedo a G.M. se anche in passato aveva avuto episodi di dolore alla schiena ma la paziente nega.

Il ruolo di breast care nurse prevede che in base alle competenze raggiunte e alla formazione maturata possa io “occuparmi” delle pazienti con maggiore liberta’ di decisione e avere quindi la possibilita’ di muovermi all’interno del gruppo multidisciplinare coinvolgendo gli altri professionisti,medici,dove lo ritengo opportuno.

Era quello il caso,di scavalcare elegantemente il silenzio che c’era stato fino ad oggi nei confronti del forte mal di schiena della paziente e provare ad organizzare una serie di visite ed esami che affrontassero il problema seriamente. G.M e’ in sovrappeso,inoltre il mal di schiena la obbliga a passare le giornate prevalentemente coricata,quindi senza svolgere attivita’ fisica.

Affrontiamo anche questo di problema e per cercare di partire dalle cose semplici in accordo con lei chiamo la nutrizionista del nostro centro e le fisso un appuntamento per permetterle di iniziare anche a pensare di alimentarsi in modo diverso,questo perche’ il sovrappeso non aiuta il mal di schiena e facilita inoltre la possibilita’ di andare in contro a recidive mammarie.

Proseguendo il dialogo con la paziente percepisco la necessita’ di parlare,di raccontare il suo vissuto,senza dover piangere a casa con i famigliari e sempre in accordo con lei contattiamo la psiconcologa del centro e fissiamo un appuntamento. Ho di fronte un paziente oncologico pero’ e per quanto psicologo e nutrizionista siano preziosi in questo percorso credo non si possa non indagare un mal di schiena che porta a tale disperazione.

Mi faccio coraggio,perche’ hai sempre il pensiero come infermiere di non voler scavalcare nessuno,di non invadere il campo altrui…ma non sono due giorni che svolgo questa professione e se c’e’ cosa importante che  ho capito e’ che con i giusti toni,i giusti modi e il giusto sapere, prendersi cura del paziente significa anche andare oltre,dove magari per mancanza di tempo o di ascolto non e’ ancora andato nessuno.

Chiamo l’oncologo di riferimento del nostro servizio,spiego la situazione,racconto anche con che

discrezione la paziente e’ arrivata a segnalare il problema per spingerlo a comprendere che forse questo mal di schiena allora non e’ proprio banale e segnando un rigore portiamo a casa,io e la signora G.M. un appuntamento per RMN con mezzo di contrasto.Una vittoria. Il risultato della RMN parla chiaro: SPONDILODISCITE probabilmente secondaria all’utilizzo dei farmaci chemioterapici.

Non e’ piu’ una vittoria.

CONCLUSIONI: ogni giorno si impara qualcosa di nuovo nella nostra professione,si impara a riflettere,a pensare velocemente,ad agire con professionalita’ e sicurezza,si impara la discrezione,l’umilta’,l’ascolto…si impara che queste due ultime cose sono l’essenza di un atteggiamento lavorativo responsabile,necessario,che mette in luce cio’ che spesso fa la differenza.

C’e’ tanto allarmismo in questi giorni per il caso della signora G.M,i medici ora hanno preso in mano la situazione e hanno ascoltato la paziente. Io mi sento serena,nonostante la diagnosi,sento che le cose sono andate per il meglio.

G.M mi ha preso le mani due giorni fa e mi ha detto con gli occhi pieni di lacrime :- grazie per avermi ascoltata,per avere capito,per aver preso in mano la situazione con professionalita’ .Ti devo tutto. Ma in realta’ non ho bisogno di altro,sono a posto cosi.

 

Marcelletti Francesca

francesca.marcelletti@uslnordovest.toscana.it

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IL VALORE DEL CODICE DEONTOLOGICO, QUELLA VOLTA CHE… di CHIARA TASSO

Il valore del Codice Deontologico, quella volta che…

Eravamo noi, io e i miei pazienti, sebbene io fossi ancora una studentessa.

Ero con loro perché dovevo svolgere una delle azioni più complesse che un infermiere possa compiere, “forse non è stato prudente affidarla ad una studentessa”, ho pensato in quel momento, “riuscirò?”. Quello che dovevo fare era stare accanto ai pazienti con cui mi trovavo e farli sentire a proprio agio, cosa non facile dato che mi trovavo in un nucleo Alzheimer e demenza senile, ma questo è quello che gli infermieri mi avevano chiesto mentre loro somministravano agli altri pazienti la terapia del mattino proprio li accanto. Erano tutti e quattro seduti li e per il momento stavano ancora finendo la colazione. Non passò neppure un minuto da questa mia riflessione che la Signora E. iniziò a urlare lamentandosi. Andai da lei e vidi che era molto agitata e preoccupata, provavo a parlarle per capire cosa succedesse ma non era facile interpretare il suo disagio tramite parole che pronunciava a stento. Ecco un flash, la Signora E. aveva un modo tutto suo per tranquillizzarsi, una cura anche economica… No, non sto parlando di una categoria specifica di farmaci, a lei bastava che le si mandasse un bacio ed ecco che sul suo viso compariva un sorriso che, a dir la verità, non sempre si vede nascere dopo aver somministrato una pastiglia. Ecco che non appena si tranquillizzò, i Signori L., peraltro seduti accanto, iniziarono a chiamare: “Infermiera?”. “Eccomi” risposi, anche se, come ho già precisato in precedenza, sono ancora una studentessa. I due pazienti si chiamavano allo stesso modo, ma imparai sin da subito quanto fossero diversi l’uno dall’altro. Uno dei due L. era molto pacato e cordiale mentre l’altro era molto burbero e severo nei modi di fare e nel suo comportamento. Anche loro non si sentivano a loro agio in quel momento. Non me lo avevano espresso apertamente ma lo si poteva intuire osservando i loro comportamenti. Il paziente più burbero, conoscendo appunto il suo carattere, aveva bisogno di alzarsi con l’aiuto che io potevo offrirgli, poichè per lui rimanere seduto a tavola a lungo rappresentava una sofferenza. Dopo avermi rivolto qualche rimprovero, scelse di seguire le mie parole e, facendo fiducia sul mio aiuto, piano piano si alzò dalla sedia. Non appena fu in piedi mi rivolse uno sguardo completamente diverso da quello di poco prima e con un cenno di sorriso mi ringraziò almeno tre volte. L’altro signor L. mi guardò subito rasserenato: era solo turbato di assistere ancora una volta alle lamentele del signore al suo fianco. Il mio sguardo tornò sul primo dei due signori L. che si stava già incamminando con il suo deambulatore verso l’altro lato della sala da pranzo ripetendo ancora mille volte tra sé e sé “grazie”. Non feci in tempo a muovere un passo che mi sentii prendere per mano. Senza neanche voltarmi capii che si trattava della signora M.. Parliamo di una signora molto autonoma, rispettosa e solare che però possiede una particolarità: tende a voler scappare attraverso qualsiasi porta le capiti di fronte e se si prova a contraddirla non ci sono modi per calmarla nei primi 20 minuti successivi. Ecco che eravamo già arrivate vicino ad una porta e mi disse: “Non si apre… Come facciamo?”. In molti, forse, penserebbero tra sé e sé: “ancora una volta devo sprecare del tempo per far capire una cosa ad un paziente che tra pochi minuti già se ne dimenticherà”. Io invece vi dico che questo è uno di quei momenti che mi stimola maggiormente: il momento in cui bisogna calarsi nel mondo del paziente che si sta seguendo, accompagnare i suoi ragionamenti (nel limite del concesso) ed entrare in sintonia con lui.

Questa esperienza è stata una delle prime che ho fatto durante il mio percorso formativo all’università ma credo che sia stata una delle più significative per me. Non ho imparato nessuna terapia nuova, nessuna nuova pratica manuale, nessuna tecnica di medicazione; ma ho capito in quel preciso istante il motivo per cui ho scelto questa professione e ho scelto di essere infermiere: prendermi cura dell’altro nella sua globalità. Avevo già studiato e letto il Codice Deontologico delle Professioni Infermieristiche e avevo capito i punti chiave su cui esso si fondava. Mi era stato detto che questo Codice regola il comportamento

professionale dell’infermiere, senza spiegare esplicitamente cosa fare e cosa non fare, ma ogni volta questo concetto mi appariva difficile da comprendere fino in fondo. Dopo questa esperienza, però, ho veramente toccato con mano ciò che significasse quella frase e gli articoli profondi che il Codice ci enuncia. L’infermiere lavora in un contesto difficile e complesso ma che, tuttavia , offre delle possibilità: la possibilità di regalare un sorriso a chi ne ha bisogno, la possibilità di ricevere “grazie” sinceri anche solo attraverso uno sguardo e la possibilità di imparare a trasmettere tanto anche senza pronunciare parola. Ho vissuto sulla mia pelle che il tempo di relazione è tempo di cura; che l’infermiere, oltre alle mille attività che svolge nel percorso di cura, agisce facilitando l’espressione di sofferenza e disagio come mi è capitato con i signori L.; che l’infermiere, inoltre, promuove la relazione con il paziente anche se quest’ultimo si trova in condizioni che ne limitano l’espressione, attraverso diverse strategie e modalità comunicative efficaci e personalizzate.

Mi sentii richiamare: era tornata l’infermiera. Mi chiese come fosse andata in sua assenza e se avessi avuto problemi, sebbene lei non avesse avvertito, come a volte accadeva, troppi rumori o lamentele dalla stanza accanto. “Credo bene”, le risposi con un sorriso.

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L’ELABORATO DI SARA CARRODANO

Antonio era un ragazzo sulla quarantina, ci conoscemmo in una struttura riabilitativa ed io ero una sua infermiera; per lui invece entrare ed uscire  dal reparto era diventata  una routine necessaria.                              La Sclerosi Laterale Amiotrofica è una malattia degenerativa del sistema nervoso centrale: la progressiva perdita del controllo dei muscoli volontari porta lentamente e dolorosamente  all’immobilità, alla perdita totale dell’indipendenza psicologica e fisica.

Luca era una persona solare , nella consapevolezza della sua condizione; quando ci siamo incontrati la sua patologia era in rapida evoluzione , la diagnosi puramente casuale era stata  fatta non più di due anni prima, ma l’inesorabilità degli eventi era un fardello pesante da portare.                                                               Al suo fianco era sempre presente la moglie Anna, il loro era un amore  intenso, molti erano i programmi fatti insieme  e lei faticava ad accettare il suo progressivo peggiorare.

Con Antonio molte volte abbiamo parlato di quello che sarebbe stato il suo troppo prossimo destino, lui soffriva  per i sogni traditi, per non essere più in grado di fare quasi alcunché in autonomia, per non poter praticamente più tenere una penna in mano.. Soffriva per Anna  e per essere la causa del suo dolore.

Così mi affidò le sue volontà, a me ed all’equipe del reparto:  come atto di indipendenza dichiarò anticipatamente  di rifiutare una futura tracheotomia.

Non è facile essere  un buon professionista, ci insegnano che  il cuore del nostro operato si racchiude nel “Sapere” “Saper Fare ” e ”Saper Essere”, quindi che alle manovre tecniche più complicate dobbiamo accompagnare l’etica del gesto  assistenziale, ma il difficile  è riuscire a provare SIM-PATIA, patire con, essere vicini. È lì, da vicino che  si riesce a percepire il DOLORE, nella sua accezione fisica ma anche globale ed esistenziale.

In questa realtà di avanguardia tecnologica, troppo spesso ci si ritrova  condannati dagli eventi, dal destino, ad un’esistenza completamente dipendente da avanzate tecnologie.

È vero che ancora non esiste  una legge ad hoc sull’accanimento terapeutico, ma almeno possiamo appellarci al codice deontologico: (art.3) ”l’infermiere cura e  si prende cura della persona ne rispetto della dignità, della libertà, dell’uguaglianza e delle sue scelte di vita e concezione  di salute e benessere” Ma anche “tutela la volontà dell’assistito di porre limiti agli interventi che non sono proporzionati alla sua condizione clinica e coerenti con la concezione da lui espressa di qualità di vita espressa anche in forma anticipata”.

Oggi Antonio non è più con noi, tuttavia io sono contenta ed orgogliosa di aver potuto, anche se solo in parte, aiutarlo a rimanere padrone di sé stesso fino all’ultimo.

Sara Carrodano

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L’ELABORATO DI SABRINA TOMMASI

Correva l’anno…eccome correva quell’anno, veloce, il primo anno della scuola Convitto Duchessa di Galliera a Genova era ormai passato, ora non ero più “colombina ”con la tipica cuffietta inamidata, difficile da stirare, orribile da vedere…Ora ero quella del secondo anno, la cuffietta si era trasformata in velo sulle spalle, che finiva “stondato” per poi trasformarsi, dopo il terzo anno, in velo “ a punta” delle cosiddette infermiere diplomate, sospirato traguardo dopo così tanto correre.

Ero in servizio presso il reparto di Neonatologia Immaturi “ San Filippo”, reparto difficile, importante, pieno di bambini, di lettini, di strilli e pannolini, incubatrici e grandi mani gentili che si prendevano cura, come fossero piccole foglioline, di quei bimbi sfortunati, alcuni di passaggio, per fortuna loro, con patologie lievi o sottopeso, altri purtroppo con gravi malformazioni o patologie, in pericolo di vita, appesi a un filo sottile, che né il tempo, né la scienza, avrebbe potuto risolvere.

…La prima volta mi sembrò di trasgredire chissà quale legge, di Chi? E come? Spalancai tanto di occhi e di braccia…..le braccia le aprii per accogliere quel corpicino piccolo piccolo, sottopeso, che sembrava guardarmi con fare interrogativo, come per dirmi sbrigati e abbi cura di me, in fretta fai tutto ciò che devi fare….. sentii una voce ferma, calda, rassicurante dietro alle mie spalle…”BATTEZZALO” mi disse … Come ? Battezzalo, presto, che io preparto l’incubatore.

In quel momento tutto il codice deontologico della nostra professione studiato a scuola mi è passato davanti. Agire in maniera adeguata in tutte le situazioni che un professionista affronta nell’esercizio della propria professione. E così, con molta emozione dentro e fuori di me, lo battezzai.

Era consuetudine e credo lo sia ancora oggi e anche legale che i bambini in pericolo di vita venissero battezzati al San Filippo, e quella fu la mia prima volta.

Ne seguirono altri e mentre sto scrivendo mi chiedo:… chissà dove saranno quei bambini…..Era l’anno 1978

Sabrina Tommasi