Mi chiamo Carlo Orlandi. Sono un milanese trapiantato a Bergamo e nato per l’anagrafe nel 1958. Sono nato invece come infermiere nel 1986. Ero un po’ avanti di età, per l’epoca: avevo 26 anni, mentre i più giovani dei miei colleghi ne avevano 19. Il motivo è che sono diventato infermiere per ripiego, dopo aver provato a diventare medico, senza riuscirci. Ho frequentato fino al terzo anno la facoltà di Medicina della Statale di Milano, ma sono rimasto subito indietro con gli esami perché dovevo aiutare mio padre in negozio. All’esame finale di diploma, nel 1986, feci uno scritto pessimo: dovevamo scrivere i punti fondamentali dell’assistenza a un paraplegico. Dopo tre anni di corso non avevo ancora capito cosa significasse il termine “assistenza”. Credo di aver capito fino in fondo cosa voglia dire essere un infermiere molto tempo dopo, quando sono stato chiamato al CLI del San Raffaele (quindi nel 2006, vent’anni dopo). L’ho capito da solo, senza che nessuno me lo spiegasse in tutti questi anni. O forse è meglio dire che tutti i grandi esempi di infermieri e di caposala che ho avuto di fronte e di fianco hanno fatto in modo che poi lo capissi, mi hanno lasciato delle tracce che poi ho seguito da solo… Nel 1986 cominciai a lavorare come infermiere contribuendo all’apertura della Dialisi del Fatebenefratelli di Milano. Due anni dopo mi chiamarono ad aprire la scuola per infermieri dell’ospedale di Ponte San Pietro, in provincia di Bergamo. In questo ospedale privato convenzionato, del quale non avrei mai neanche immaginato l’esistenza, ho lavorato in tutto 14 anni (con una pausa in mezzo, che spiegherò più avanti). Qui ho conosciuto mia moglie e ho fatto l’infermiere insegnante, il caposala e il capo dei servizi sanitari ausiliari (lascio volutamente i termini in uso all’epoca). La più bella esperienza fra queste è stata senza dubbio quella del caposala, che ho fatto per 6 anni. Ho ricevuto grandi soddisfazioni, dai colleghi, dai medici, dal personale di supporto, ma soprattutto dai pazienti. Lì ho cominciato a mettere in pratica quello che avevo studiato e quello che avevo assimilato dalle figure esemplari che ho conosciuto. Quella che ricordo meglio era un’infermiera generica, Carla, un donnone alto e robusto, bergamasca DOC, che teneva in pugno il suo reparto di Neurologia con una grande autorità clinica, una grandissima umanità e soprattutto, una grande saggezza. Le devo molto.

Un’altra grande figura, che mi ha profondamente plasmato, è stata quella di Carlo Calamandrei, che ho conosciuto negli anni dal 1991 al 1995, quando ho lavorato come redattore in una casa editrice, occupandomi della linea editoriale dedicata agli infermieri. Lì ho curato l’edizione italiana di molti testi fondamentali, tra i quali lo Yura- Walsh, che ho fatto con Paola di Giulio, che è il testo fondamentale sul processo di nursing. Un altro libro che ho curato è il White-Ewan sul tirocinio, il solo libro presente, a oggi, sull’argomento. Credo di essere stato l’unico in Italia ad aver fatto questo lavoro. È stata un’esperienza molto positiva, che mi ha fatto conoscere i più grandi infermieri italiani fra i quali, appunto, Carlo Calamandrei. Con lui, in quegli anni, nacque l’idea di pubblicare un libro che riassumesse tutti gli aspetti fondamentali della formazione manageriale degli infermieri. Il libro uscì poi nel 1998 e proprio quest’anno ho appena finito di curarne la quarta edizione. Nel 1995 tornai all’ospedale di Ponte San Pietro per fare il caposala e poi il capo dei servizi sanitari ausiliari. Quest’ultima esperienza mi ha segnato profondamente. La gestione pura del personale non mi ha entusiasmato, anzi, mi ha proprio frastornato. I troppi condizionamenti (i più pesanti sono venuti dalla proprietà e dal sindacato) mi hanno impedito di lavorare come avrei voluto e mi hanno lasciato molto insoddisfatto. Grazie a questa esperienza ho però conosciuto l’ospedale San Raffaele di Milano, dove sono arrivato nel 2006 per coronare un sogno, quello di insegnare agli infermieri all’Università. Dal corso di Laurea in infermieristica, dopo due anni, per varie vicissitudini, mi sono trasferito prima al Servizio Infermieristico e infine alla Qualità, dove adesso mi occupo, con grande soddisfazione, di gestione del rischio clinico. Più o meno in contemporanea con l’arrivo al San Raffaele, mi hanno chiesto di insegnare in un master di coordinamento le due materie che conosco meglio, ovvero l’analisi organizzativa e il rischio clinico. Anche da queste attività di insegnamento ho ricevuto molte gratificazioni, soprattutto perché spero di essere riuscito a trasmettere agli studenti gli insegnamenti che io stesso ho ricevuto … Chiuderei con due riflessioni che dedico ai colleghi più giovani.

Cercate sempre di progredire nella situazione nella quale vi trovate, anche cambiando luogo di lavoro, se necessario. Io ho colto sempre al volo le occasioni che mi sono capitate, spesso senza pensare troppo alle conseguenze di quello che stavo per fare. Diciamo che dopo tre-quattro anni dello stesso lavoro la tensione a trovare qualcosa di nuovo diventava sempre più forte in me. Certo, è diminuita con il passare degli anni e il diminuire delle possibilità di lavoro per noi infermieri, ma direi che è stata una caratteristica costante della mia esperienza. Non mi ha mai spaventato la novità, anche se devo dire che adesso, con il passare degli anni e un po’ di esperienze maturate, gli ultimi cambiamenti non sono stati proprio indolori. Cercate di capire bene cos’è un infermiere. Detto con le mie parole, e nel modo più semplice possibile, per me è qualcuno che è in grado di risolvere in modo professionale i problemi della vita quotidiana delle persone con una malattia fisica o un disagio psichico. Questa è la cosa fondamentale. Quando lo capisci e lo senti dentro ti dà una grande ricchezza sul piano umano, soprattutto. La nostra è una professione diversa rispetto a tutte le altre, è bellissima e sono contento ancora oggi di averla scelta. Mi ha fatto diventare grande, mi ha fatto conoscere mia moglie e mi ha fatto fare delle esperienze di vita fondamentali. L’unico mio rammarico è quello di esserlo diventato in Italia, dove la nostra professione ha ancora tanta strada da fare sul piano del riconoscimento sociale e professionale. Un po’ per colpe nostre e un po’ per colpa della situazione storica, sociale ed economica del nostro Paese. È sempre e comunque un gran bel lavoro, da fare con passione e con amore.

Carlo Orlandi

Marzo 2015